Il disingaggio dell’America

 

Di Carlo Pelanda (6-6-2009)

 

Guardiamo la realtà sotto la retorica. Obama sta realizzando il ritiro degli Stati Uniti dalla gestione diretta degli affari globali. Deve farlo perché, pur superpotenza, non ha più i mezzi per reggere la sicurezza e l’economia mondiali come ha fatto dal 1945 al 2005. Vuole farlo perché rappresenta il voto di un’America stanca di combattere, da sola, guerre che sente remote.  

 La politica statunitense ha già tentato due volte il disingaggio nel recente passato. L’Amministrazione Nixon (Kissinger, 1973) elaborò la dottrina del passaggio dalla gestione singola ad una condivisa dei costi economici e militari dell’alleanza antisovietica perché non riusciva più a sostenerli. Ciò generò il G5, poi G8, ma non funzionò perché gli alleati europei ed il Giappone non vollero, e non potevano sul piano del consenso interno, contribuire. La questione divenne meno urgente per la grande crescita dell’era Reagan (1980-88) combinata con l’implosione dell’URSS (1984-1991) e per l’enorme bolla di ricchezza  (1995 - 2008) creata dalla globalizzazione trainata dalla doppia locomotiva sino-americana, ora grippata. Ma negli anni ‘90 restò presente nei think tank preoccupati nell’osservare i fallimenti di Clinton non solo dovuti alla sua superficialità quanto al fatto che l’America non aveva più la forza per governare un mondo “ingrandito”. Nell’aprile 2000 C. Rice, ispirata dal generale Scowcroft, formalizzò la “Dottrina dell’interesse nazionale” come tema della campagna elettorale di G. W. Bush, che la applicò nei primi mesi di governo nel 2001: l’America si sarebbe ritirata dalla gestione diretta dell’ordine mondiale lasciandola agli alleati o organismi regionali, disponibile ad ingaggiarsi solo in caso di minaccia ad interessi vitali. Gli eventi del settembre 2001 invertirono tale strategia. Ma nel 2005 l’Amministrazione Bush riprese il disingaggio. Obama sta perseguendo esattamente questa dottrina, variandone solo la retorica di copertura

Il discorso in Egitto ha la seguente spiegazione. Non può mollare subito Afghanistan e Pakistan, oltre che l’Iraq, e ha bisogno di sostegni sia sauditi sia iraniani per restarci. Non può permettersi un rialzo del prezzo del petrolio che ucciderebbe la stentata ripresa economica e le sue ambizioni di rielezione nel 2012. E’ ovvio che lisci l’Islam per aprire la strada agli accordi riservati che il suo inviato G. Mitchell tenterà con quegli attori tra poco. Così come è ovvio che debba usare un linguaggio più vicino alle sensibilità degli europei per forzarli a riempire i geovuoti lasciati dall’America e collaborare. Merkel, nell’incontro di ieri a Berlino, è stata riluttante, ma l’ambizioso Sarkozy non vede l’ora di ingaggiarsi (per questo è rientrato nella Nato). Altro che era di pace e comprensione. I lettori devono chiedersi come difenderemo la nostra sicurezza e ricchezza in un mondo dove l’America non vorrà e/o potrà farlo per noi. Probabilmente dovremo combattere e sudare come mai l’Italia ha più fatto dal 1945.  

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